Noi, quelli della parola che sempre camminaWe, those of the ever-walking word


Noi, quelli della parola che sempre camminaA cura di Gustavo Giacosa

« Emergenza della parola, a sud dell’immaginario.
Essa procede e orienta »
Edouard Glissant

Il titolo di questa esposizione, preso in prestito da un poema del guerrigliero messicano Marcos, è il monito che ci invita a scoprire le tracce di una espressione artistica effimera: il graffitismo outsider.
Dai muri che hanno contenuto la follia, intesa come devianza alle norme e pericolo sociale, ai muri di un Altra-città: la città degli esili urbani, la città delle partenze, come le stazioni ferroviarie, dove la follia disegna e graffia le sue mitologie proponendo un antimuseo della scrittura « brut ».
La ricerca si sviluppa a partire dall’installazione del fotografo Pier Nello Manoni che riproduce i muri del cortile dell’ex ospedale psichiatrico di Volterra, dove Nannetti Oreste Fernando da più di dieci anni ha graffiato cento metri di un affresco di testi, segni e disegni.
Sulla superficie esterna di questi muri scopriremo il lavoro di artisti muralisti liberi come Melina Riccio a Genova, Giovanni Bosco a Castellammare del Golfo (TP), Carlo Torrighelli a Milano o Babylone a Mayotte (isole Comore).
Sucessivamente, il percorso espositivo ci porterà ad scoprire alcuni artisti della parola che si staccano dal supporto murario: performers della parola-viva, esibita, indossata su di sé come è il caso di Helga Goetze a Berlino.
Rinchiusa o libera, la parola-disegno spinge per uscire. E’ la portavoce della « Visione » e lungo il viaggio fa la scoperta di nuovi territori del sé ridefinendo nel contempo una nuova urbanistica.
Ignorati, poco conosciuti o invece esaltati nei blogs, il graffitismo folle segue il destino del margine e dell’effimero.
Le parole che sorgono dal viaggio, tagliano la radice unica del pensiero fisso, dell’identità univoca, del nome di battesimo, spingendo nell’identità-arcipelago, offrendosi come regalo, richiesta o interrogazione da artisti che condividono lo stesso errante destino.

In corrispondenza alla mostra sono previste attività collaterali, con attenzione particolare al pubblico giovanile e studentesco.
Incontri, tavole rotonde sul rapporto tra street art e graffitismo “outsider”, presentazioni di recenti scoperte dell’ “arte irregolare” come Giovanni Bosco e Helga Goetze (nuove acquisizioni della Collection dell’Art Brut di Lausanna), visite guidate, performace e concerti ispirati agli autori in mostra.

Aspetti tecnici:

Un’equipe guidata da uno scenografo dell’Associazione Culturale ContemporArt, seguirà la “mise en espace” de la struttura espositiva ed un eventuale adattamento ad ogni luogo d’esposizione.
A grandi linee, l’esposizione è concepita come un viaggio intorno ai muri e alle storie di vita dei suoi autori.
Alcuni pannelli di presentazione a questo viaggio poetico e visuale accoglieranno i visitatori in un idoneo spazio introduttivo.
Lo spazio centrale disponibile sarà dedicato all’installazione fotografica che riproduce fedelmente i 24 metri di cortile interno dell’ospedale psichiatrico di Volterra dove lavorò il Nannetti.
Panelli di 100 cm per 70 cm dotati di un sistema d’illuminazione per ciascuno e disposti a ferro di cavallo costituiscono il punto di partenza del percorso espositivo.
Attorno a questa struttura centrale, altri spazi o “stanze” adiacenti ospiteranno l’opera degli altri muralisti.
Dotate di un’autonomia sonora permetteranno la proiezione simultanea di più video.
Ognuna delle stanze non proporrà opere e schermi tradizionalmente appesi alle pareti, ma ospiterà strutture interne autoportanti progettati sulle esigenze delle opere esposte.
Si mira a sottolineare nell’allestimento, il contrappunto tra un percorso artistico che nasce nella chiusura, e l’isolamento dei muri dell’istituzione psichiatrica con il lavoro libero ed autonomo che altri artisti della parola-disegno realizzano sui muri delle nostre città.
In ogni spazio o « stanza » sono previsti :
· due schermi video ( uno proietterà materiale documentaristico sulla vita del autore, l’altro proietterà un slide-show dei murales da lui eseguito)
· l’esposizione di materiale grafico su carta e tela realizzati dagli stessi autori.

L’Associazione Culturale ContemporArt, sin dalla sua fondazione, si è occupata della promozione di eventi culturali legati al binomio arte-follia. Si ricordano la mostra fotografica di Armando Giorgini: « Tutti a casa. Senza fissa dimora a Bologna »
Il convegno « Nuove povertà ed esclusioni sociali. Confronto tra Genova e Bologna » ContemporArt house gallery 20-21/04-07,
Due ma non due. Aperture ed incontri nell’arte degli anni post Basaglia” Loggia della Mercanzia 28/11–25/12/08 con cui ha ricordato attraverso una serie di manifestazioni quali tavole rotonde, mostre e concerti il trentennale dell’entrata in vigore della legge 180.
“Noi, quelli della parola che sempre cammina” è la sezione “Arti visive” di un nuovo progetto che ContemporArt intende realizzare nel prossimo settembre 2010:
il ContemporArt festival e che conta con il sostegno della Regione Liguria, Provincia e Comune di Genova, e ASL3 genovese e la collaborazione del Art et Marges museum de Bruxelles e il M.A.D museum de Liege (Belgio).

« Emergenza della parola, a sud dell’immaginario. Essa procede e orienta »

Edouard Glissant

A Baia, sui campi flegrei, esulta un albero di fico selvatico la cui aspra fioritura oscilla a testa in giù. Come le braccia di Sansone, i suoi innumerevoli rami smuovono le pietre della storia, volti da una vitalità incontenibile che non può trattenere il suo corso. Incuranti a seguire un orientamento, i suoi organi vitali, radici, steli, fiori e foglie pulsano d’energia vitale aprendo le strade della “contro natura”.

 Allo stesso modo l’emergere della parola, guida l’emergenza del manifestarsi. Rigogliosa, cresce dai semi trasportati dal vento e la sua presenza di-segno tracciata nelle pareti rocciose delle grotte  preistoriche o nei muri dell’urbe contemporanea, segna le frontiere della transumanza.

A distanza di qualche chilometro da questa selvaggia flora arborea, su un contenitore di giornali gratuiti nella stazione ferroviaria di Napoli Centrale, scopro il seguente annuncio:

NATURA, NO CULTURA – PACE – MELINA RICCIO.

Ricordo vagamente enunciati simili in altre città, messaggi salvifici tracciati da una grafia minuta, scritti con pennarello nero o verde sugli espositori di giornali o sui bancomat.

Non ricordo il momento in cui cominciai ad avvertire la presenza di simili richiami. So che essi esistevano per me molto prima di questo momento. Dimorano nelle periferie dello sguardo finché il ritmo spedito non si acquieta e l’occhio ascolta la percezione sbiadita di questi insistenti richiami.

Sono le stazioni ferroviarie di Milano Centrale, Genova Piazza Principe, Pisa, Napoli Centrale, Roma Termini, Ancona, Bari i luoghi dove successivamente avrei incontrato altre scritte  misteriose che avrebbero immediatamente composto uno spontaneo registro  di presenze della sua autrice, la firmante Melina Riccio.

Ma chi è Melina Riccio?  Quale forza la spinge  in questi tropismi?  Sono reazioni d’orientamento verso un’anistropia della mente?  Offerte votive di una vagabonda del dharma? Seducenti appunti di viaggio di un’artista concettuale?

Alberi e grafismi evocano la figura di Gaston Chaissac: artista e graffiteur hors norme, nel suo piccolo villaggio di Vendée in Bretagna, mentre ponderava il sorgere testardo di un ciliegio dalle viscere rinsecchite di un muro, il suo continuo fiorire anno dopo anno…

Come catturato davanti a uno specchio, l’artista resta turbato dinanzi a una configurazione arborea estranea e familiare quanto il proprio pensiero. La biologia metaforica insegna che è peculiarità consona al rizoma quella di dar vita autonomamente a nuove piante in condizioni sfavorevoli.

Succede a volte, che sui muri fioriscano alberi della parola.

Come in uno sfondo costante a galassie in perpetuo movimento, i muri si estendono simili a una superficie, dove si adagia e germina il pensiero-rizoma individuato dalla geofilosofia di Deleuze e Guattari e che ritroviamo nella forma mentis di alcuni scriba visionari. La natura invisibile della vita, che s’articola in modo sotterraneo come un linguaggio, giunto il suo tempo, riversa in superficie il rovescio della parola con  i suoi latenti e molteplici significanti.

Ricordai allora i versi che chiudono il poema-manifesto del sub comandante Marcos che da tanti anni si perpetuano nella rocciosa fragilità dello spettacolo “Guerra” di Pippo Delbono:

Noi, i senza voce.

Noi i senza viso.

Noi, quelli della parola che sempre cammina…

Questi versi che ho imparato a danzare sono stati la stella polare di una libera ricerca, inseguendo l’apparizione effimera della parola che sorge dal movimento e le tracce dell’arte primaria che le è sposa: il graffito.

Emergenza della parola che fa eco all’urlo sordo di chi non ha voce, irrompendo e appropriandosi del margine che lo contiene.

Il graffio è l’effetto di ogni esclusione ed è altresì la causa della sua liberazione.

Sui muri che contengono i devianti dell’ordine sociale e quelli di una città Altra dove la follia graffia le sue mitologie, creando un aperto anti-museo del segno brut, le parole che sempre camminano sono creazioni non veicolate dai circuiti di diffusione e commercializzazione dell’arte. Potrebbero aderire a molteplici correnti artistiche: art brut, land art, pop art, performance, poesia concreta, ecc.. Pur tuttavia esse rappresentano un margine dentro il margine di ognuna di queste, sfuggendo a una completa appartenenza.  Infrangono i luoghi comuni del graffitismo “istituzionalizzato”, in quanto rischiosa sfida ai limiti del consentito o dell’art brut, dove le opere ammesse devono maturare nel riparo del “silenzio, della solitudine e del segreto”. Esse si propongono come aperta e gratuita condivisone di un’esposizione che sorge esplicitamente da un limite, per infrangerlo.

Come i popoli del deserto che inseguono gli indizi di carovane scomparse o rivali, così approfondendo un intuitivo spirito di ricerca sono diventato “cercatore di tracce”.

Ho camminato inseguendo una sfuggente forma d’arte camminata. Camminare è un’arte? Camminando si fa arte?

L’atto performativo del camminare è inscindibile dalla scelta di vita (consapevole o meno) di questi speciali autori e dal concepimento della loro opera.

Osservando il mio viaggio dentro il viaggio di questi artisti mi affido a una pratica dello spirito che rifiuta una catalogazione di stampo positivista.

Cercare di contenere le manifestazioni di questo tracciato effimero nel vaso contenitore di una mostra, di un catalogo o di una qualsiasi forma elencata può apparire un’impresa paradossale, alquanto contraddittoria all’anima stessa che vibra in questi “fiori di un solo giorno”.

L’inseguire le strade traverse del viaggio, abbandonandosi talvolta al vagabondaggio è stata l’unica modalità possibile per avvicinarmi ed incontrare tali manifestazioni. Abbandonare le vie più battute ha conferito autenticità all’ incontro con uomini e culture lontane permettendo così di dare un volto ad anonime manifestazioni, inghiottite dall’onnivoro progredire delle nostre città. Ricordo Aziz Foulani e la sua calligrafia cufica dal carattere arrotondato di una goccia, disegnata con gessetti su muri e stradine della casba di Fez, l’antica capitale del Marocco; Sasà e la sua ossessione per l’”assorbimento elettrico di  puzze velenose” proiettata sui muri del quartiere  Forcella a Napoli;  Marthia Pasquali “a louca” con le sue pagine di racconti di vita  appese agli alberi o ai cancelli di Rua Higienopolis a San Paolo; ed infine i poemi e le lacrime che Aldo Bortolotti disegnava sui volti delle statue e dei manifesti pubblicitari di Reggio Emilia. “Io conosco solo questa scrittura per spiegarti che non esiste solo il nostro mestiere con questa sofferenza…”, scriveva su un muro ripetutamente da lui graffiato.

Giunto in una nuova città, le storie di un folle del luogo che graffiava sui muri accorrevano verso la mia curiosità con alata spontaneità; tuttavia una volta finito (almeno in parte) questo  lungo viaggio senza meta e svuotato il sacco dei tesori accumulati, ho deciso di concentrare la mia attenzione su un gruppo d’autori che annoverano un corpus  importante d’opere grafiche, nel quale possiamo riscontrare un lavoro seriale e una ricchezza espressiva che spesso oltrepassa la manifestazione murale, spingendosi all’ utilizzo di altre tecniche artistiche come il disegno su carta, il ricamo e  la perfomance.  Non soltanto manifestazioni sporadiche di un’artisticità contrassegnata dal disagio psichico, ma una qualità artistica che sgorga continuamente con rinnovata autenticità, facendo del concepimento e dell’uso della parola l’agnello della propria redenzione.

Una cavalcata vittoriosa sulla costrizione dello spazio fisico e mentale che ha inizio nei muri dell’ospedale psichiatrico di Volterra, dove nel suo cortile per oltre dieci anni Oreste Fernando Nannetti ha graffiato cento metri di muro con testi, segni e disegni realizzando una delle opere maggiori del graffitismo outsider.

Attorno a questo centro incontriamo l’opera di alcuni muralisti italiani contemporanei, che sfuggendo al recinto murario della costrizione psichiatrica, sulle orme della riforma basagliana si sono espressi in maniera libera  e autodidatta come Carlo Torrighelli, detto il C.T, storica presenza delle strade milanesi tra gli anni Settanta e Ottanta; o nell’ultimo decennio, Melina Riccio, attiva a Genova e in altre città italiane; o ancora Giovanni Bosco nella sua Castellammare del Golfo (TP).

Dalla lontana isola di Mayotte nell’arcipelago delle Comore, giungono notizie di un vagabondo che si aggira per le strade della sua capitale Mamoudzou, disegnando in maniera compulsiva fitti alveari di segni. Nessuno conosce il suo vero  nome, ma è da tutti chiamato (simbolicamente?) Babylone.

Helga Goetze a Berlino è invece un’artista della parola  che si stacca dal supporto murario: performer della parola in viaggio, che esibita e indossata su di sé, insegue il pellegrinaggio evangelico della sua consapevole sacerdotessa.

Rinchiusa o libera, la parola-disegno spinge per uscire.

E’ la portavoce della «Visione» che, lungo il viaggio compiuto per la sua predicazione, fa esplorazione di nuovi territori del sé e diviene disegno di un’urbanistica alternativa che si sovrappone all’ordine e al progresso.

Il paesaggio mentale di questi artisti si estende in opere che invadono la paesaggistica amena, svelando orridi che a stento riusciamo a guardare.

Valutate come folcloristiche manifestazioni di costume, ignorate dalla critica d’arte, talvolta esaltate nel mondo della controcultura, che fa della rete il suo canale veicolante, le parole al margine inseguono un  destino fragile ed evanescente. Come voci che sorgono dal viaggio (fisico e mentale), esse recidono la radice unica del pensiero fisso, dell’identità univoca, del nome di battesimo, proponendosi come il frutto di un’identità-arcipelago, offrendosi come dono semplice e gratuito, richiesta o interrogazione da parte di artisti che condividono lo stesso  errante destino.

 Gustavo Giacosa

 

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